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sabato 30 aprile 2011

L’integrazione degli immigrati a Roma nelle opinioni di un gruppo di testimoni privilegiati


L’integrazione: come si definisce e come si promuove
L’integrazione va definita come riconoscimento o rispetto reciproco nelle differenze, esercizio degli stessi diritti e convivenza pacifica (complessivamente più della metà delle risposte). Altre risposte ricorrenti, seppure con minore frequenza, sono: non discriminazione, interazione, adattamento al nuovo contesto conservando le proprie caratteristiche, confronto, sentirsi a proprio agio seppure in un altro paese, vita stabile.
Secondo la quasi unanimità delle risposte, per società imperniata sulla mediazione culturale deve intendersi quella in cui italiani e stranieri devono essere aiutati ad adattarsi reciprocamente gli uni altri e non quella in cui si chiede solo agli immigrati di adattarsi al nuovo contesto.
Per favorire una maggiore integrazione è necessario innanzi tutto (più della metà delle risposte) insegnare il rispetto reciproco, eliminare i pregiudizi e migliorare la normativa.
Viene spiegato anche che l’integrazione si sostanzia di misure concrete: più fondi, disposizioni in grado di favorire i diversi aspetti dell’inserimento (casa, scuola, servizi vari, promozione della lingua, aiuto alle associazioni, impiego dei mediatori culturali).
Alcune strutture pubbliche e associative sono riconosciute molto importanti per la vita degli immigrati, e perciò sono sollecitate a fare di più. Il fatto che esse vengano citate singolarmente si configura, nello stesso tempo, come un encomio e come uno sprone: le associazioni laiche e cattoliche di immigrati e per immigrati (24 volte), la Caritas (24 volte), i servizi socio-sanitari e scolastici (14 volte), la comunità di S. Egidio (13 volte), il comune di Roma e i municipi (rispettivamente 12 e 10 volte), la provincia (8 volte), i centri di culto delle differenti religioni (8 volte) e, quindi, le strutture pubbliche nazionale e territoriali e le singole associazioni.

Vita sociale, diritti, cittadinanza e voto
Quasi metà degli intervistati partecipa spesso a manifestazioni culturali, artistiche e politiche, mentre solo 1 su 10 non lo fa mai. Tra i membri del gruppo di appartenenza si dimezza la percentuale di chi partecipa spesso, ma aumenta quella di quanti partecipano qualche volta, per cui nel complesso immigrazione e partecipazione, pur nei limiti della vigente normativa, sono due termini tutt’altro che disgiunti.
4 intervistati su 10 sono venuti spesso a conoscenza di episodi di discriminazione e 5 su 10 qualche volta, per lo più attraverso la televisione e la stampa o (in un quinto dei casi) attraverso i membri del gruppo di appartenenza che, peraltro, fanno all’incirca la stessa esperienza. I casi di discriminazione lamentati sono equamente divisi tra lavoro, scuola, vita pubblica e altri settori. Come si vedrà in seguito, l’esperienza – senz’altro negativo – delle discriminazioni non pregiudica il forte legame con il nuovo ambiente, quello romano in particolare.
Della carta di soggiorno viene riconosciuta l’importanza in maniera plebiscitaria (9 su 10 risposte), perché conferisce un più alto livello di serenità, di sicurezza, di stabilità e legalità, ed la base per i progetti del futuro, consentendo di ottenere una serie di diritti e di tutele, dalla libertà di movimento all’inserimento lavorativo.
6 su 10 intervistati ritengono la cittadinanza molto importante, trattandosi di una scelta di inserimento definitivo (1 su 10, invece, la ritiene di nessuna importanza) e di essi 5 intendono richiederla, principalmente per poter fruire di tutti i diritti, alla pari degli italiani, con conseguente impatto positivo anche sulla situazione professionale.
Più dei due terzi degli intervistati si trova nelle condizioni per ottenere la cittadinanza italiana, ma solo un quinto l’ha ottenuta, mentre gli altri si dichiarano interessati a ottenerla: da ciò si ricava la sussistenza di ostacoli di natura giuridica e burocratica, ma non solo, e c’è da mettere in conto anche il mancato interesse di una parte di loro.
Si pensi ai cittadini extracomunitari appartenenti a Stati diventati membri dell’Unione Europa a maggio 2004 e a gennaio 2007: per loro l’acquisizione della cittadinanza nel passato era una decisione strumentale intesa a garantire la permanenza in Italia, mentre ora questa garanzia è assicurata dal diritto comunitario e, quindi, per molti è svanito l’interesse. Comunque, aumentando il numero dei soggiornanti stabili e gli anni di permanenza, è da mettere in conto una certa lievitazione del numero dei nuovi cittadini, sia che la legislazione rimanga invariata sia, a maggior ragione, che la stessa venga resa meno restrittiva a seguito delle proposte legislative di modifica attualmente in discussione al Parlamento.
Degli immigrati, che già hanno la nazionalità italiana o quella di un altro Stato membro dell’UE, con conseguente diritto di votare alle elezioni amministrative (maggio 2007), si è presentata alle urne solo una scarsa metà. Eppure 7 intervistati su 10 (solo 1 su 10 non ha riconosciuto alla questione alcuna importanza) ritengono molto importante per un cittadino straniero la concessione del voto amministrativo, perché il voto consente di partecipare alla vita della società ed è segno di un inserimento a pieno titolo, anche se a tale scopo servirebbe anche il voto politico.

Lingua e scuola
La lingua del posto è un formidabile strumento di integrazione e più di 9 su 10 intervistati ne hanno una conoscenza soddisfacente, anzi nella maggior parte dei casi buona. Non si deve pensare che questa situazione ottimale riguardi solo i testimoni privilegiati: anche gli altri membri dei gruppi di appartenenza vengono accreditati in una posizione similare (8 su 10 con una conoscenza buona o soddisfacente) Anche se in Italia manca una strategia organica di insegnamento dell’italiano ai nuovi venuti, a differenza di quanto avviene in Germania e in altri Stati membri, tra gli intervistati solo 1 su 10 parli a casa solo la lingua madre, mentre negli altri casi o si parla congiuntamente anche l’italiano o solo l’italiano.
Connesso con la conoscenza dell’italiano è anche il fatto che i due terzi degli intervistati guardano spesso la televisione italiana e solo 1 su 10 lo fa raramente: anche i membri dei gruppi di appartenenza, stando a quanto precisato dagli intervistati, si comportano all’incirca alla stessa maniera.
Per migliorare la situazione viene unanimemente auspicato l’incremento dei corsi di lingua, adattandoli agli orari di lavoro, diversificandoli a più livelli, tenendo conto delle esigenze specifiche delle diverse nazionalità e, perché no, prevedendo corsi gratuiti obbligatori per tutti gli stranieri. Non manca chi saggiamente fa osservare che se italiani e immigrati passassero più tempo insieme e avessero più contatti, ciò avrebbe un impatto positivo anche sul livello delle conoscenze linguistiche.
Metà degli intervistati ritiene che i figli degli immigrati abbiano a scuola, o spesso o qualche volta, problemi nel seguire le lezioni e questo proprio per i problemi linguistici che si pongono nel periodo iniziale. Ma non sono gli unici problemi riscontrabili in classe e bisogna pensare anche a quelli emotivi, psicologici, culturali, alla differenza di programmi e di sistemi scolastici, al carente appoggio dei genitori.
Nei due terzi delle risposte viene ribadito che la scuola italiana non è adeguata al nuovo contesto multiculturale, perché i programmi e i libri di testo non tengono conto della nuova realtà multietnica e andrebbero meglio curati l’aggiornamento e la motivazione degli insegnanti.
Vengono chiamati in causa anche i genitori immigrati: solo un terzo degli intervistati afferma che essi vanno spesso alle riunione per genitori nelle scuole dei loro figli.

Il problema della casa
Gli intervistati dal punto di vista alloggiativo stanno meglio rispetto alla generalità della popolazione immigrata, di cui a loro avviso 8 su 10 si trovano in una situazione appena sufficiente o addirittura insufficiente.
La propensione all’insediamento definitivo si scontra con la gravità del problema della casa, che affligge sia gli immigrati proprietari (più di un terzo tra i testimoni privilegiati intervistati, una percentuale molto più elevata, circa il doppio, rispetto alla popolazione straniera proprietaria di alloggi sia a Roma che in Italia) che gli affittuari:
entrambe le categorie devono far fronte ad esborsi consistenti, la prima per pagare i mutui e la seconda il canone di locazione. Ciò sottolinea che il processo di integrazione è condizionato da aspetti immateriali (atteggiamenti, impostazioni culturali, disponibilità alla mediazione) e altri estremamente concreti (stanziamenti per le politiche di integrazione e investimento sulle strutture).
In una grande città come Roma, contrassegnata da un vai e vieni continuo di immigrati, non desta sorpresa che più di 1 su 10 abbia una sistemazione alloggiativa ondivaga: pensioni modeste che si è costretti a lasciare poco tempo dopo l’arrivo perché sono finiti i risparmi; parenti o amici che accolgono per un periodo limitato; sistemazione presso il datore di lavoro, a scapito delle esigenze relazionali e familiari e fin tanto che dura il rapporto di lavoro; altri si arrangiano in un retrobottega, in un casale abbandonato, in una autorimessa di macchine dimessa e altri ancora hanno allestito piccoli campi abusivi lungo il Tevere.
Questa situazione non può non chiamare in causa, oltre agli enti locali, la politica nazionale da molti anni gravemente deficitaria su questo punto.

Il contesto multi religioso
Le domande sulla situazione religiosa in Italia a seguito dell’immigrazione sono state previste espressamente per porre in evidenza uno specifico aspetto del caso italiano, che sembra suscitare grande interesse non solo da parte tedesca ma anche da parte di altri Stati membri.
Un terzo degli intervistati ha ritenuto che le differenti appartenenze religiose possano essere d’ostacolo a una integrazione armoniosa: sotto questo aspetto viene citato in maniera più ricorrente l’Islam, ma ciò può riguardare tutte le religioni, oltre che per le persone che le praticano, sia per motivi estrinseci (pregiudizi e strumentalizzazioni dei politici e dei media) che intrinseci (mancanza di laicità, ruolo della donna).
È risaputo che il problema religioso costituisce spesso un serio ostacolo all’obiettivo dell’integrazione: anche l’Italia non è esente, anche se il problema si pone in maniera meno acuta rispetto ad altri Stati. A tal fine hanno influito una ripartizione estramemente diversificata tra le diverse religioni: i cristiani sono la metà del totale e al loro interno cattolici e ortodossi si equivalgono; i musulmani sono un terzo del totale; sono ben rappresentante anche le grandi religioni orientali, per limitare l’esemplificazione ai gruppi più conosciuti.
Questo policentrismo ha fatto venire meno i presupposti che consentono ad una comunità religiosa di presentare in maniera assolutizzante le sue richieste. È riduttivo, ad esempio, ritenere che il contesto multireligioso determinatosi a seguito dell’immigrazione si esaurisca nell’Islam, dimenticando le altre religioni. Il fatto che media, politici e pregiudizi non favoriscano la comprensione, non deve far dimenticare che si pongono anche problemi intrinseci alle diverse fedi sul piano dei diritti, aspetto non sempre percepito e dibattuto seppure fondamentale ai fini di un dialogo serio e rispettoso, come ribadito del resto da un terzo degli intervistati.
A Roma, dove i due terzi degli immigrati sono cristiani e dove ha il suo centro la chiesa cattolica, le cose sembra che vadano meglio che altrove per l’opera illuminata del magistero pontificio (che ridimensiona la fondatezza delle reazioni al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI), per la disponibilità alla collaborazione delle parrocchie (che considerano i musulmani e gli altri credenti innanzi tutto dei fratelli) e anche per le posizioni aperte dei responsabili del Centro culturale islamico presso la grande moschea di Roma e della sezione italiana della Lega musulmana mondiale, come anche per l’opera infaticabile dei mediatori culturali musulmani che, insieme a quelli cattolici o di altre religioni (come avviene, ad esempio, nel “Forum per l’intercultura” della Caritas di Roma) operano per sensibilizzare la città alle esigenze di una convivenza pacifica, impostata sull’osservanza delle inderogabili norme comuni e, al contempo, sul rispetto delle differenze. Si sta affermando, seppure faticosamente e per gradi, la convinzione che i credenti di tutte le religioni siano responsabili “in solido” della testimonianza nei confronti del mondo di oggi onde evitare che la religiosità venga recepita come un controvalore e questa dimensione, non nuova ma non sempre posta alla base dell’incontro e del confronto tra le religioni, è in grado di addossare a ciascun protagonista un maggiore impegno nella ricerca di impostazioni comuni e non conflittuali.

Dalle prime alle seconde generazioni
I testimoni privilegiati offrono un quadro differenziale tra le prime e le seconde generazioni.
Le prime generazioni vengono così dipinte: alle prese con i bisogni primari (come casa e lavoro), senza aspettative e più arrangiate, più ingenue e disposte a subire ma anche forti nelle difficoltà, più interessate ai contatti con i paesi d’origine, mimetizzate più che integrate, senza aver concluso il progetto migratorio. Tutto ciò avviene nonostante i protagonisti dei primi flussi migratori abbiano – a differenza di quanto avviene in altri paesi europei – un alto livello di istruzione (tra diplomati e laureati gli stranieri totalizzano 6 punti percentuali in più rispetto agli italiani), il che non ha loro impedito di rilevare i posti di manovalanza, o comunque di basso rango, lasciati liberi dagli autoctoni.
Le seconde generazioni, invece, sono pienamente integrate, interessate ad avere tutti i diritti, non disponibili a svolgere i lavori umili dei loro genitori (del cui livello di vita sono deluse) ma meno forti nelle difficoltà e anche, come viene attestato dalle statistiche, prive dei livelli di alta scolarizzazione raggiunti dai loro genitori.
Merita rilevare che questo crudo quadro comparativo è stato tracciato dagli appartenenti alla prima generazione e che tutto lascia intendere che la convivenza con le seconde generazioni potrebbe diventare anche in Italia difficoltosa, a meno che non vengano organicamente perseguito, a livello legislativo e sociale, quelle istanze positive che una pratica sociale, ormai consistente, ha permesso di evidenziare.

Prospetti ve per il futuro: comunque la preferenza per Roma e per l’Italia
I difetti dell’Italia e degli italiani consistono in un misto di carenza di apertura mentale (leggi inadeguate, preconcetti e diffidenza) e di presenza di impedimenti concreti (riguardanti la burocrazia, i servizi sociali, la casa), e così avviene anche per i pregi, tra i quali viene annoverato innanzi tutto la solidarietà, sostenuta da puntelli concreti come l’assistenza sanitaria, l’accesso all’istruzione e ai servizi sociali.
Roma risulta essere non la città dove si risiede attualmente, ma anche quella dove una quota significativa (4 su 10) degli intervistati vuole continuare a vivere: su quelli disponibili a un eventuale trasferimento hanno fatto breccia altre città come Bologna, Siena, Trieste, Firenze o, detto in termini generali, qualche città del Nord o qualche città del Sud. Non sono state registrate le motivazioni di queste aspirazioni, che peraltro dipendono dalla sensibilità individuale, dalle relazioni intrattenute e dal fascino che possono avere esercitato le altre città conosciute, comunque, Roma ne esce bene. Le motivazioni per la permanenza sono improntate più a grande concretezza che a ragioni ideali: facilità della vita quotidiana, opportunità di lavoro, affetti familiari e rapporti di amicizia, disponibilità dei servizi sociali. Non mancano motivazioni che si collocano a livello più elevato: Roma come città internazionale e multietnica, esteticamente bella e più aperta agli immigrati e meno propensa alla discriminazione. Siamo di fronte a un credito di apprezzamento e di affetto, che merita di non essere disatteso sul piano delle politiche di accoglienza e dei comportamenti personali.
I paesi, dove gli intervistati pensano che gli immigrati vivano meglio, sono la Gran Bretagna, l’Olanda e la Svezia, ai quali si affianca la mediterranea Spagna, tutti con più di 20 segnalazioni. Due grandi paesi di immigrazione, come la Germania e la Francia, non vengono neppure menzionati. Di quelli indicati si apprezzano normativa e politiche sull’immigrazione, il modello di società più aperto alla multietnicità, le maggiori opportunità lavorative e un welfare più soddisfacente.
L’Italia se la cava ancor meglio di Roma e si accredita come il paese dove gli intervistati (metà delle risposte) affermano di voler vivere stabilmente e di preferire (due terzi delle risposte) agli altri Stati membri: sono soddisfatti del contesto generale, della qualità della vita, dei legami creati e non pensano sia il caso di ricominciare da capo.
Come andranno le cose in Italia è un rebus, che lascia divisi gli immigrati tra chi pensa che interverrà un miglioramento (il gruppo più numeroso, comunque inferiore alla metà) e chi al riguardo rimane perplesso (un terzo del totale). Questo inquadramento in chiaroscuro riflette il rapporto ondivago tra la società italiana (e anche la città di Roma) e l’immigrazione, in una sorta di “sindrome da romanza” (“Vorrei e non vorrei”) perché si riconosce la necessità dell’immigrazione per sostenere l’andamento del mercato del lavoro ma non si è del tutto disposti a convivere con essa a livello sociale e interpersonale. Quindi, molto resta da fare al legislatore nazionale e agli enti locali.
Era scontata la prevalenza (6 su 10) di chi riconosce che l’Unione Europea esercita un’influenza rilevante sulla politica migratoria dell’Italia e degli altri Stati membri e, semmai, desta meraviglia che un quinto delle risposte sia contrassegnato dallo scetticismo.

Gli interessati a viva voce. Opinioni sull’integrazione
“È un processo che mira alla partecipazione attiva degli immigrati nella vita economica, culturale, sociale e politica del paese”.
“Le differenze che ci separano degli altri sono solo di tipo culturale, che ben utilizzate possono rappresentare un grande arricchimento. Dovremmo andare oltre e pensare alla persona, all’essere umano, all’umanità che ognuno di noi racchiude. A tutto ciò che ci accomuna. Tutti abbiamo gli stessi sogni, lo stesso desiderio di dare ai nostri figli un mondo pacifico e migliore, dove non esista più la parola “straniero””.
“In realtà non vorrei parlare dell’integrazione, bensì dell’interazione. Secondo me, è importante che entrambe le parti, ovvero sia gli stranieri che gli Italiani, sappiano convivere gli uni con gli altri, aprendosi reciprocamente alla conoscenza dei propri mondi. Si tratta, oltre a questo, di voler approfondire le diverse culture, capirle, ma anche, se non soprattutto, rispettarle. L’interazione deve essere per definizione, reciproca, pacifica e realizzata con la consapevolezza e la volontà delle persone e senza paura dell’incognito e dell’altro”.
“Per parlare dell’integrazione dobbiamo prima annullare dal nostro modo di pensare i confini che ci dividono”.
“Purtroppo quando si sente parlare dell’integrazione, si intende che gli immigrati devono inserirsi senza scomodare gli italiani e quindi integrarsi in modo da assomigliare di più agli italiani.”

Indicazioni per migliorare l’integrazione?
“Riconoscere l’immigrato al momento del suo arrivo come portatore di saperi e competenze che ha acquisito nel suo paese e provare ad accettare tutte le sue capacità in modo creativo, aperto , costruttivo e non deprofessionalizzandolo al fine a ridurlo a due braccia di lavoro da inserire nei settori dell’economia italiana.”
“Innanzitutto è necessaria una modifica della legge sulla cittadinanza e della c. d. Bossi–Fini, titoli di soggiorno e decreto flussi vanno resi più coerenti con una politica di integrazione. Ci vuole, poi, un riconoscimento più rapido dei titoli di studio conseguiti all’estero e un’attenzione maggiore alla tematica dei minori stranieri. Va superata la frammentarietà degli interventi e avviata una programmazione a livello nazionale.”
“Per migliorare, si dovrebbe innanzitutto cambiare totalmente idea di cos’è integrazione, e cercare di avvicinare gli italiani e gli immigrati evitando di creare un movimento unilaterale: immigrati verso italiani. Per fare questo serve più rispetto verso le tematiche d’immigrazione da tutti i partiti politici e i mass media, quindi una maggior sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Poi servono che i diritti riconosciuti dalla legge e la Costituzione (per quanto riguarda l’asilo o la non-discriminazione, per esempio) vengono rispettati, poi altri diritti, come il diritto di voto, devono ricevere il dovuto riconoscimento legislativo.”
“Forse quello che va fatto è non integrare ma costruire insieme.”

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