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martedì 14 settembre 2010

Roma come Helsinki, perché no?


Roberta Carlini
Réportage pubblicato su L’espresso n. 15, 15 aprile 2010

Helsinki, i primi della classe

“Where are you from? Italy? Wow, I have an italian friend…Would you like to seat with us?”
I bambini che andando a mensa si raggruppano attorno alla giornalista in visita non hanno difficoltà a farsi capire. Fanno un sacco di domande, soprattutto le femmine. Non sanno di essere loro l’oggetto dell’attenzione.
Dalle aule della Jakomaki della periferia nord-est di Helsinki, insieme ai loro coetanei in tutta la Finlandia, sono i protagonisti della scuola-modello del mondo.
Scienze, matematica, lettura: gli studenti finlandesi sono sempre in testa, se non al primo al secondo o terzo posto, nelle pagelle dell’Ocse. Così la Finlandia, paese poco abitato (in popolazione, è grande quanto il Lazio), per anni congelato al confine tra i due blocchi, è diventato il primo produttore al mondo della fabbrica dell’istruzione.
E adesso vuole farne un modello da esportazione. Ma dove sta il segreto del suo successo?

Laptop e fai-da-te
Immersa nella neve di un inverno troppo ostinato persino per Helsinki, la scuola Jakomaki si presenta come una scuola normale: tre padiglioni abbastanza moderni, in cui si dividono circa cinquecento studenti dai 7 ai 16 anni. Il più grande è quello dei più piccoli.
All’inizio, colpisce quello che non c’è: genitori, nonni o babysitter all’uscita, inservienti a mensa. Anche i bambini di sette-otto anni riempiono e svuotano i loro vassoi, li impilano negli appositi contenitori, e dopo mangiato si rimettono gli scarponi pesanti e tornano a casa da soli, a gruppetti.
Dentro le aule, salta invece agli occhi quel che c’è: un computer portatile su ogni banco. “Ne abbiamo uno per alunno, da quest’anno”, dice Ulla Maija Vahasarja, la giovane direttrice di Jakomaki, che ci tiene prima di tutto a spiegare che la sua non è una scuola d’élite: piazzata com’è in mezzo a un quartiere che prima era tutto operaio, e che adesso con le sue case popolari attrae molti immigrati , il 35% di ragazzi ha origini straniere, una percentuale anomala per i finlandesi.
I computer, così come tutti gli altri requisiti di un ambiente tecnologicamente accogliente – dal wi-fi agli arredi allo studio degli spazi comuni – sono solo gli ultimi arrivati, grazie al progetto Inno-school per il quale la Jakomaki è stata prescelta, entrando così in un network d’eccellenza gestito dalle università di Helsinki, Lapponia e California.

Le altre cose c’erano già prima.
A partire dal fatto che la scuola è unica, fino ai 16 anni: “Anche noi prima avevamo elementari e medie, il grande cambiamento c’è stato negli anni ‘70”, racconta Vahasarja, che all’epoca forse non era ancora nata. Da allora tutti i nove anni dell’obbligo sono stati unificati, con un processo lento, che ha rimandato sui banchi a studiare una generazione di insegnanti, e che è stato perfezionato solo alla fine degli anni ‘90. Ma che sta dando appieno i suoi frutti, secondo gli esperti finlandesi chiamati a spiegare i segreti del successo: “In fondo, i ragazzi che hanno scalato le classifiche dell’Ocse sono i figli della prima generazione raggiunta dalla scolarizzazione di massa”, dice Jarkko Hautamaki, professore di Scienze applicate dell’educazione all’università di Heksinki. Che aggiunge un particolare non di poco conto: “i test dell’Ocse-Pisa si fanno a campione sui quindicenni. Quindi, quando vengono chiamati a riempire quei fogli, i nostri studenti si trovano in una posizione ottima, all’apice dell’intero ciclo: sono all’ultimo anno di una scuola che è stata uguale per tutti, poco prima di dividersi verso le scuole superiori”.
Questo non vuol dire che dall’infanzia all’adolescenza gli alunni stiano sempre nella stessa classe e con la stessa maestra. “Nei primi anni le classi sono più numerose e con una sola maestra, negli ultimi anni ci sono meno studenti per classe e insegnanti specializzati per singole materie; in più, ci sono docenti ad hoc per i ragazzi che hanno bisogno di sostengo”, spiega la direttrice della Jakomaki.
C’è un programma di base obbligatorio, ma poi sta alle singole scuole e soprattutto ai comuni la scelta concreta su come organizzarlo. E anche su come usare la scuola, in senso più largo.
Alla Jakomaki per esempio vediamo i ragazzi andarsene a casa dopo mangiato. Ma la scuola non chiude, resta aperta fino alle nove di sera: per le riunioni, per le famiglie, per i lavori di gruppo, per i corsi di recupero, per chi voglia usarla. “L’edificio della scuola è il centro della comunità, è uno spreco tenerlo chiuso al pomeriggio”, dice Vahasarja.

E al pomeriggio come al mattino nessuno paga niente: né per l’uso della scuola, né per la mensa, né per l’eventuale autobus da prendere, né per i libri. Ma non è una novità a queste latitudini. E l’istruzione resta gratis, con i connessi servizi, fino a tutta l’università: “Tasse? Rette? No, niente di tutto ciò. Gli studenti non pagano finché non escono da qui, con laurea o Phd”, dice col tono di chi afferma un’ovvietà Markuu Markkula, della Aalto University.

Il fattore I
Scuola unificata, servizi gratis, vita di quartiere, alta tecnologia, autonomia dei bambini: può bastare questo mix di Don Milani e Nokia, a spiegare il miracolo finlandese? Non parliamo dell’Italia, con i suoi problemi arretrati e i suoi tagli freschi.
Ma perché altri paesi europei che hanno ingredienti simili non hanno gli stessi risultati a scuola? Qual è la ricetta segreta? “Buoni insegnanti”, dice con semplicità la direttrice Ulla.
“Buoni insegnanti”, conferma l’intero staff degli esperti universitari mandati dalla Aalto a spiegare agli stranieri il futuribile progetto Innoschool.
E’ da quarant’anni che in Finlandia bisogna prendere un master per poter insegnare dalle elementari in su; i relativi corsi durano tre anni sono a numero chiuso, e l’ammissione è molto ambita. Una volta finito il master, gli insegnanti entrano in un albo cittadino, dal quale le scuole scelgono chi chiamare. Quest’anno l’università di Helsinki ha accettato solo il 9,8% delle domande: la selezione è dura, gli aspiranti tanti. Quella strage di candidati, dice Hautamaki, “segnala il fatto che la carriera può essere intellettualmente e socialmente interessante e appagante”.
Ma alla domanda: “guadagnate molto?”, le insegnanti della scuola Jakomaki scuotono la testa: “no, non sono i soldi la questione principale”. Non sono neanche l’ultima cosa, però: dai 2.925 euro (lordi) di una maestra, ai 3.260 di un insegnante “speciale” (materie specifiche o sostegno), ai 4.200 del dirigente, sono stipendi lontani da quelli dei nostri insegnanti, e di tutto rispetto anche rispetto ad altri prof europei. Ma sono comunque inferiori a quanto guadagna nella stessa Helsinki un laureato con master in altri posti, pubblici o privati. A fare la differenza è forse il ruolo sociale importante, tuttora attribuito a chi insegna.
Ma anche la possibilità di cambiare lavoro, se lo si vuole: tutte le grandi aziende hanno dipartimenti per l’educazione, e gli insegnanti sono molto richiesti. E, più semplicemente, “il fatto che siamo libere, nel nostro lavoro: non di scegliere cosa insegnare, ma di decidere come farlo”, ci spiega un’insegnante della Jakomaki.
“Chi è che vuole diventare insegnante? Il più delle volte, chi ha avuto un buon insegnante: in fondo, quello della maestra è l’unico lavoro che i bambini conoscono davvero”. Kirsti Lonka, psicologa dell’educazione dell’università di Helsinki, si occupa proprio di studiare la motivazione degli insegnanti nella scuola del futuro.
Una scuola sulla quale il governo finlandese sta puntando con molte ricerche e progetti ad alto tasso di tecnologia: che non vuol dire mettere computer e lavagne elettroniche in classe, ma saperli usare per riorganizzare l’intero ambiente della scuola.
Per Lonka il successo finlandese è quasi un problema: “perché dovremmo cambiare? Non andiamo già bene così?”, si sente chiedere spesso dai docenti. Domanda non peregrina. Lonka risponde così: “Andiamo bene proprio perché vogliamo cambiare, siamo aperti al cambiamento”.

Non solo soldi?
Ma quanto costa tutto questo? A prima vista, il bilancio che dà Vahasarja farebbe stramazzare a terra il dirigente di una qualsiasi scuola italiana, costretto a elemosinare soldi dalle famiglie financo per pagare i supplenti: “4 milioni e 410mila euro l’anno, tutto compreso, dagli stipendi all’affitto al riscaldamento: ma di questa somma, gestiamo direttamente solo 230mila euro.
In più, la nostra scuola ha 150mila euro l’anno per prevenire gli abbandoni degli studenti a rischio”. Per avere un metro di paragone, ecco una cifra dal bilancio di una scuola romana (la Pascoli, scuola media del quartiere San Giovanni, circa 600 alunni): 8.005 euro in tutto l’anno per pagare le supplenze brevi. La distanza appare abissale. Eppure nell’insieme la scuola finlandese non è lussuosissima.
La Finlandia spende in istruzione il 6,1% del Pil, e il 12,6% dell’intera spesa: certamente più dell’Italia e della media europea, qualcosa in meno dei livelli scandinavi.
Ma si tratta di numeri in percentuale, se si passa ai valori assoluti le cose cambiano.
“I soldi non sono tutto”, afferma deciso il professor Hautamaki, che ha preparato un grafico illuminante con il quale mette in relazione la spesa per studente e i punteggi in scienze: ne viene fuori che “non c’è una relazione, la Finlandia è da sola al top nei punteggi ma nel mucchio quanto ai livelli di spesa”.
Prendendo la misura standard dei dollari a parità di potere d’acquisto, viene fuori addirittura che uno studente italiano, che deve pagarsi libri e mensa, in media riceve più di un finlandese, al quale la scuola passa anche l’apparecchio per i denti: 8.263 il primo, 8.048 il secondo.
Com’è possibile? “Non dimenticate che siamo pochissimi, 500mila studenti in tutto”, dice realisticamente Hautamaki. E organizzare i piccoli numeri è più facile. Inoltre, anche se il ciclo dell’obbligo è più lungo, si passano meno ore in classe, e ci sono più alunni per ogni insegnante. La spesa però cresce con il crescere dell’età, e sale nettamente sopra la media per gli studenti impegnati nell’università e nella ricerca.
Tra i fattori di efficienza, Hautamaki mette anche il decentramento: la spesa si divide a metà tra stato e comuni, ed è gestita quasi interamente da questi.
Gli stessi maestri e prof sono dipendenti comunali.
Un decentramento spinto, che convive con la scuola più uniforme del mondo. Vale a dire: i famosi e celebrati test Pisa hanno gli stessi risultati in tutte le scuole e in tutte le zone del paese, le differenze tra migliori e peggiori si spalmano all’interno delle scuole, non tra una scuola e l’altra. Hautamaki la semplifica così: “puoi iscrivere i tuoi figli dove vuoi, sai che avranno le stesse opportunità”.

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